Cuori invincibili, 28-07-2010, ritenuta utile da 1 utente su 1
« Nel 1994 Nelson Mandela deve trovare il modo di gestire la vittoria. Eletto presidente del Sud Africa, si trova a governare un paese profondamente diviso da tensioni razziali e minacciato da criminalità e disoccupazione. Alla ricerca di un fattore che possa essergli utile a unificare il paese, punta sul rugby, sin lì lo sport dei bianchi, e dunque aborrito dai neri, approfittando del fatto che proprio il Sud Africa ospiterà la Rugby World Cup del 1995. Naturalmente, il progetto può riuscire solo se la squadra nazionale riesce a ottenere un buon risultato. Il problema è che il gruppo, privo di motivazioni e influenzato dal clima emotivo del paese passa di sconfitta in sconfitta. Mandela decide quindi di parlare personalmente con il capitano della squadra. Saprà trovare il modo di toccargli il cuore. Consiste semplicemente nel dirgli, che durante i 27 anni passati nelle galere del regime dell’apartheid, nei momenti di sconforto, trovava conforto in Invictus, una poesia vittoriana, che termina con questi versi: Non importa quanto sia stretta la porta, quanto piena di castighi la vita. Io sono il capitano del mio destino; io sono il capitano della mia anima. Parole che metteranno in moto un flusso di sentimenti, che, partendo dall’immedesimazione dei giocatori con le sofferenze patite dal leader, li porta a dare il massimo in campo. Sino all’inattesa vittoria della coppa. Da un film dell’ultima produzione di Eastwood si sa cosa ci si deve aspettare: stile classico, impeccabile direzione degli attori, argomenti di grande spessore etico ed emotivo. Invictus è quindi un film notevole. Ma c’è in esso un sentore di routine, una percettibile carenza di entusiasmo. Da vedere, naturalmente, e da lodare come un’ulteriore tappa di una carriera straordinaria. Ma in questo caso, la parola capolavoro è fuori luogo. »
Un godzilla per il XXI secolo, 26-07-2010, ritenuta utile da 1 utente su 2
« Il miglior film di fantascienza del primo decennio del secolo. Nasce dall’idea di J. J. Abrams, qui in veste di produttore, di inventare un mostro che divenga icona degli Usa, come lo è Godzilla per i giapponesi, ma più malsano e sconvolgente (lui considera King Kong troppo bonaccione). C’è dietro anche un’intuizione geniale, rispetto ai film di mostri degli anni ’50; far vedere la vicenda dal punto di vista di chi li subisce. Allora, i dinosauri, o quel che erano, smantellavano le città, tallonati dai militari e dagli scienziati, mentre i civili fuggivano a frotte, figurine indistinte che sciamavano tra crolli di macerie e crepitare di tralicci. Cloverfield ci porta tra la popolazione in cerca di scampo, in un crescendo di panico e morte. Lo scopo di coinvolgere lo spettatore è ottenuto perfettamente grazie allo stile iperrealista, mascherato da ripresa da videocamera. E al caotico dipanarsi della vicenda, al graduale svelamento dell’aspetto della minaccia, ma non della sua reale natura. Peccato che alcuni critici abbiano trovato ridondante o addirittura da mal di mare il saltare delle immagini. E furbesca l’operazione. Che Abrams sia anche un genio della promozione è indiscutibile. Ma Cloverfield è tutt’altro che un bluff. C’è qualcosa di toccante nell’odissea disperata di questi ragazzi smarriti nella città annichilita da un’incomprensibile orrore. E di tutti i film post 11/09, pochi riescono a rendere con eguale forza il senso di smarrimento subito dall’America. Quanto al mostro, appare letale più per sconcerto che per ferocia, come fosse capitato là per caso. Un dettaglio curioso: le creature che lo accompagnano, su cui si sono lette varie banalità, in realtà sono i suoi parassiti. Il che solleva ulteriori interrogativi sulla natura del nemico. In ogni caso, i veri artefici della riuscita del film sono lo sceneggiatore e il regista, Matt Reeves. Quest’ultimo avrà presto l’occasione di confermare il proprio talento. Gli è stata affidata la regia del remake americano di Lasciami entrare, film svedese di vampiri a sua volta il miglior horror di questo inizio di millennio. »
Un lucertolone con gli occhi a mandorla, 26-07-2010
« Non è tutto oro ciò che arriva dall’estremo oriente. I cultori del trash asiatico sono disposti a papparsi qualunque schifezza, ma lo spettatore avvertito è meglio stia molto in guardia, dato che la cicogna dei capolavori è rara in qualunque parte del mondo. Ma questo sud coreano The host, del 2006 (in originale Gwoemul, cioè mostro) è davvero un film notevole. In un laboratorio, un patologo militare americano ordina all’assistente coreano di vuotare nel lavandino certi bottiglioni pieni di sostanze inquinanti. Il tecnico obietta, ma deve fare come vuole l’americano. Le sostanze finiscono nel fiume Han, che attraversa Seul. Passa del tempo, e un bel giorno dal fiume esce una creatura mostruosa, presumibilmente un anfibio mutato. Il mostro scatena il panico tra la gente che passeggia sulle rive. E per ottime ragioni. In effetti è un predatore. Che non si limita a divorare chi gli capita a tiro. Previdente, alcune prede le porta vive in una tana nelle fogne della città, per mangiarsele con comodo. Capita che rapisca una ragazzina e che la famiglia, un gruppo di ristoratori, si metta sulle sue tracce. Ma le autorità li mettono in quarantena, sostenendo che il mostro è anche vettore di un virus ignoto. Tuttavia la ragazzina sarà salvata proprio dai suoi e il mostro annientato, anche se a caro prezzo. E neppure il finale vuole essere del tutto rassicurante. Riuscito melange di dramma famigliare, horror fantascientifico, critica sociale e politica – cosa non scontata, dato che i registi coreani, che pur amano la commistione di generi, a volte producono delle cose irricevibili - The host ha riscosso in patria un successo stratosferico (13 milioni di ingressi). Merito dell’ottima confezione del regista Bong Joon-ho e degli effetti speciali della Weta di Peter Jackson. Ma anche del sottotesto politico, aspramente polemico nei riguardi dei politici locali e dell’ingerenza degli americani negli affari coreani. Ma volendo trascurare questo aspetto del film, resta uno spettacolo raccomandabile anche nella nostra parte di mondo. »
Tra apache e lancieri di Massimiliano, 26-07-2010, ritenuta utile da 1 utente su 1
« Alla fine del 1963, Sam Peckinpah (1925 – 1984) pare giunto alla svolta decisiva della carriera: la regia di una grossa produzione, un western naturalmente, con un cast di prestigio, in cui spicca Charlton Heston, uno dei grandi divi del periodo. Non sa invece che sta per vivere la più drammatica esperienza della propria vita, artistica e non, da cui uscirà irrimediabilmente segnato. Peckinpah, che si è fatto notare per il lavoro televisivo e per due ottimi western low budget, riceve un copione che narra una normale vicenda di scontri tra militari e indiani e lo rimaneggia, sino a trarne una storia ricca di implicazioni. Sierra Charriba (Major Dundee, 1965) inizia con il massacro – cui lo spettatore non assiste – di un reparto di soldati nordisti, a opera di una banda di apache guidata da Sierra Charriba. È in corso la guerra di secessione, e il reparto veniva dalla guarnigione di un campo di prigionia in cui si detengono prigionieri sudisti. Il capo del campo, il maggiore Dundee, decide di dare la caccia a Sierra Charriba. E poiché non dispone di abbastanza uomini, arruola anche civili e prigionieri, con la promessa di agevolarli in seguito. Il problema è che gli apache si sono rifugiati in Messico, all’epoca occupato dalle truppe francesi (qui è evidente il richiamo a Vera Cruz di Robert Aldrich). Non è l’unico, perché la spedizione è minata da infinite rivalità interne (nordisti contro sudisti, bianchi contro negri, rancori personali). Tra continue tensioni e battaglie contro indiani e francesi, la missione si compie. Ma i superstiti saranno pochi. A vederlo oggi, il film risulta essere un capolavoro straordinariamente diretto, innovativo e anticipatore. Eppure all’epoca fu un fiasco. I guai cominciarono già durante le riprese. La Columbia, temendo che il regista avesse perso il controllo della produzione (c’è però da dire che l’instabilità emotiva di Peckinpah, accentuata dalla passione per l’alcol, qualche dubbio lo poteva suscitare), impose di smettere le riprese settimane prima del previsto. Accadde allora un fatto clamoroso: Heston offrì il proprio compenso per coprire le spese del completamento del film. Ma ormai Peckinpah si era attirato l’astio del produttore esecutivo Jerry Bresler che per puro spirito di rivalsa macellò letteralmente la pellicola, mutilandola di decine di minuti di pellicola e cambiando la colonna sonora. Non contento, la gettò sul mercato senza promuoverla, condannandola di fatto all’insuccesso. La giustificazione di Bresler che il film era troppo violento, non basta a perdonare uno dei più tragici scempi della storia del cinema. La versione vista all’epoca in Italia era dunque quella amputata. Ma bastava per attribuire a Sierra Charriba lo status di film epocale. Com’è detto, Peckinpah ne ebbe la carriera spezzata. Non ritrovò mai la piena fiducia dei produttori e allora ebbe inizio la pulsione autodistruttiva che lo portò a una fine precoce. Questa edizione del film recupera quanto si è potuto trovare negli archivi delle sequenze tagliate. Non è molto purtroppo: parti fondamentali, quali la lunga sequenza del massacro iniziale, che motiva poi l’ossessiva caccia all’indiano, altrimenti oscura di Dundee, sono introvabili. Pare che l’ineffabile Bresler si sia premurato di distruggerle. Ma almeno, è quanto basta per rendere giustizia a un capolavoro imperdibile. »
« Nel 1954 Robert Aldrich (1918 – 1983) e Burt Lancaster (1913 – 1994) ottengono larghi successi di critica e pubblico con due western, che molto hanno significato nella storia del genere. L’ultimo apache (Apache) è uno dei primi film apertamente dalla parte degli indiani – e di una etnia in genere considerata come la più feroce e indomabile –narrando una vicenda di sopraffazione subita da un guerriero che cerca solo di vivere libero con la propria famiglia. E Lancaster mette tutta la sua maestria d’attore e la sua possanza fisica nel rappresentare l’odissea dell’indigeno Massai. Ma è Vera Cruz ha essere più visto oggi, e per la ricchezza produttiva e per l’originalità della trama, che ha ispirato molti importanti western. Alla fine della guerra di secessione, due avventurieri – uno, impersonato da Gary Cooper, con un suo codice d’onore, l’altro, interpretato da Lancaster, cinico e disposto a tutto - si trovano nel Messico occupato dai francesi. Lo stesso imperatore Massimiliano li ingaggia perché scortino una dama a Vera Cruz. Ma le cose non sono come sembrano. In un crescendo di scontri con i rivoluzionari, intrighi e tradimenti, i due dovranno scegliere da che parte stare. Inevitabile la resa dei conti tra loro, dopo una risolutiva battaglia tra francesi e messicani. Non sono stati solo i pregi formali del film – non va dimenticato l’apporto di Ernest Borgnine, Jack Elam, Charles Bronson – a farne un classico. L’ambientazione messicana, l’intromissione di un elemento esotico – per gli americani, certo – quale i lancieri francesi, l’ambiguità morale dei personaggi sono stati seminali per Sam Peckinpah, Don Segal e Sergio Leone. »
« È il più controverso e per certi versi misterioso film di Stanley Kubrick (1928 – 1999). L’ispirazione gli venne dall’omonimo romanzo di Stephen King, ma la scelta del bestseller non fu solo motivata dalla possibilità di trarne un buon film. Kubrick, deluso dall’insuccesso di Barry Lyndon e in di cerca di una rivincita al botteghino, pensava che il nome di King potesse costituire un ulteriore motivo di richiamo. Al solito, la lavorazione fu lunga ed estenuante, specie per gli attori. Shelley Duvall, in particolare, ne uscì talmente stressata che poi sparì dagli schermi. Ma il film esordì fiaccamente, tanto che il regista vi pose subito mano, riducendo da 146 a 143 minuti la versione Usa e, addirittura, a 119 minuti quella che conosciamo in Europa. La limatura americana, conservata anche nelle edizioni nel resto del mondo, cambia in effetti il significato del film, o quanto meno ne decreta l’indecifrabilità. Infatti, nell’ultima scena, il direttore dell’albergo si comportava in modo tale da far capire che il luogo è davvero infestato e che lui in qualche modo collabora con gli spettri. Il resto dei tagli rende più scorrevole la pellicola e alleggerisce le visioni spettrali della Duvall e del bambino. Da lì in poi, il film incassò bene, senza però convincere la critica Usa (fu l’unico lavoro del regista a non essere candidato nemmeno a un Oscar). Neppure King si dichiarò soddisfatto, accusando Kubrick di avere travisato il senso del libro (neanche fosse Guerra e pace). In sostanza, sarebbe stato l’approccio razionalista di Kubrick, notoriamente non credente e scettico sul paranormale a impedirgli di coglierne tutte le implicazioni. La cosa singolare è che mai lo scrittore è stato tanto severo con una delle innumerevoli trasposizioni cinematografiche e televisive dei suoi lavori. E sì che se ne sono viste di schifezze. Il sospetto è che non gli andasse giù che per la prima volta la ragione sociale Stephen King passasse in secondo piano, rispetto al nome del regista. La polemica è andata avanti a lungo. E si è capito quanto fosse strumentale quando nel 1997 King ha personalmente supervisionato una brutta versione televisiva del libro. Capricci di scrittori troppo abituati a essere osannati a parte, un vero mistero è l’incomprensione iniziale dei critici Usa. Certo, uno dei tanti motivi di fascino di Shining sta nel suo enigmatico svolgersi. Noi non sappiamo come siano andate davvero le cose: Jack Torrance è pazzo? O invasato da entità malvage? Gli altri hanno davvero visto qualcosa o le loro sono allucinazioni dovute alla situazione estrema? Come accennato, i tagli effettuati dopo l’uscita hanno modificato in questo senso il film. E naturalmente la critica ha giudicato la prima versione. Ma è possibile che quei tre minuti fossero tanto maldestri da rovinare il tutto? E comunque l’atteggiamento ostile è proseguito al punto che il film ebbe due candidature come peggior regista e peggiore attrice ai Golden Raspberry Awards. Il che è tutto dire. Eppure oggi Shining ha raggiunto lo status di classico senza tempo. Pur essendo implicito, ellittico e ignaro di blood and gore (non parliamo poi degli ignobili eccessi torture porn alla Hostel) viene riconosciuto come uno dei film più paurosi mai girati. A me pare che questo graduale successo siano la dimostrazione del valore assoluto dell’opera e della genialità del suo artefice. Kubrick ha saputo innestare meccanismi inconsci. Il film cresce dentro, radicandosi inesorabilmente. Ci dice qualcosa di ontologico su ciò che siamo, qualcosa di tanto profondo e conclusivo da andare aldilà della razionalità. Alla faccia di Stephen King. »
L’Arizona come Vietnam, 15-07-2010, ritenuta utile da 1 utente su 2
« Nel 1972 Robert Aldrich (1918 – 1983) trova modo di esprimere il suo punto di vista liberal sul coinvolgimento Usa nella guerra del Vietnam con Nessuna pietà per Ulzana (ma è molto meglio il titolo originale Ulzana's Raid). Naturalmente è solo uno degli aspetti del film, che è soprattutto un eccellente western militare, diretto benissimo da uno dei grandi di Hollywood. La vicenda si ispira a fatti realmente accaduti. Nel 1885 Ulzana, capo degli apache Chiricahua, fugge con una decina di seguaci dalla riserva in cui è stato costretto, non sopportando i maltrattamenti delle autorità preposte. Sulle sue tracce si mette un distaccamento di cavalleria assistito da un vecchio scout (un canuto e, al solito, bravissimo Burt Lancaster, qui anche coproduttore). La banda di fuggitivi si lascia dietro un ascia di sangue, indulgendo anche in orribili torture (un modo per riacquistare l’energia vitale consumata dalla cattività, verrà detto) che fanno inorridire il giovane tenente a capo del reparto. In colloquio chiederà allo scout se non odia gli apache. No, gli risponde la guida. Sarebbe inutile, come odiare il deserto: è la loro natura. La missione prosegue tra agguati e scontri in campo aperto. Alla fine Ulzana sarà ucciso, ma a costo di gravi perdite. All’epoca risultò evidente la similitudine col Vietnam: gli apache conoscono perfettamente il territorio che difendono con pieno diritto, essendo la loro patria. Sono i bianchi, gli intrusi, e non possono che trovarsi a mal partito. A chiarire ulteriormente la situazione, valgono le dichiarazioni di Ke-Ni-Tay, l’apache che collabora con la cavalleria. Lo fa per motivi suoi, ma ammira Ulzana e il suo modo di ragionare resta incomprensibile al tenente. Vale la pena di notare che il vero Ulzana fece davvero una scorreria in quell’anno. Ma nessuno lo prese. In seguitò trattò la resa e campò sino a morire, nel 1909, quasi novantenne in una riserva in Oklahoma. »
Regia di Clint Eastwood - Warner Home Video
Regia di Matt Reeves - Universal Pictures
Regia di Joon-ho Bong - Koch Media
Regia di Sam Peckinpah - Universal Pictures
Regia di Robert Aldrich - 20th Century Fox Home Entertainment
Regia di Stanley Kubrick - Warner Home Video
Regia di Robert Aldrich - Universal Pictures